In Serbia elezioni nel segno della continuità: “Pace, stabilità, Vučić”

Come previsto dai sondaggi, le elezioni che si sono tenute lo scorso 3 aprile in Serbia non hanno prodotto cambiamenti nel panorama politico del paese. Gli elettori sono stati chiamati a votare per le presidenziali, per il rinnovo anticipato del parlamento – inizialmente previsto per il 2024 – e per le amministrative. Quanto alla corsa presidenziale, Alexandar Vučić si è aggiudicato un secondo mandato di cinque anni con oltre il 58% dei consensi. Una vittoria annunciata, ma arrivata in un momento particolarmente delicato.

Da sempre sostenitore del bilanciamento tra Mosca e Bruxelles, con l’invasione russa dell’Ucraina Vučić ha dovuto cercare un nuovo equilibrio tra i propri elettori filorussi e filoccidentali. Gran parte dell’opinione pubblica serba si sente infatti legata alla Russia per via della comune identità slavo-ortodossa, tuttavia al suo interno sono presenti posizioni che propendono anche per un avvicinamento all’Occidente. Con l’escalation della crisi ucraina, questa polarizzazione si è inevitabilmente acutizzata. L’abilità di Vučić, in un momento di tensione che ha visto la Serbia attraversata da manifestazioni e proteste di segno opposto, è stata quella di scegliere la via di una “neutralità attiva” per assecondare le aspettative di tutti. Da un lato, la violazione del territorio ucraino è stata condannata formalmente sia attraverso un comunicato governativo sia in sede Onu. Dall’altro lato, l’ipotesi di allineamento alle sanzioni europee è stata esclusa in quanto dichiarata lesiva dell’interesse nazionale. Una presa di posizione ambigua che ha permesso al presidente serbo di dipingersi come garante di stabilità in un momento di forte tensione, tenendosi così stretto il favore dell’opinione pubblica.

Tra gli altri sette candidati, una magra vittoria è andata a Zdravko Ponoš. Ex capo di stato maggiore e leader della coalizione di opposizione Ujedinjena Srbija, negli ultimi anni Ponoš ha guadagnato un buon consenso tra nazionalisti e conservatori ed è così riuscito ad aggiudicarsi il 18% dei voti. Un risultato non trascurabile ma che non ha creato i presupposti per un ballottaggio con Vučić, riconfermatosi presidente al primo turno.

I candidati alle presidenziali

Risvolto analogo anche per le parlamentari. Il Partito progressista serbo (Sns) ha ottenuto il 43% dei voti, assicurandosi circa 120 seggi e riconfermandosi il primo partito del paese. In Assemblea nazionale sono poi entrati la coalizione Ujedinjena Srbija con il 13,6% e il Partito socialista di Serbia (Sps) con l’11,51%. Il risultato del Sps è particolarmente rilevante: per la prima volta dal 2014 il Partito progressista non è infatti riuscito ad ottenere la maggioranza dei seggi, e dunque una coalizione con il Partito socialista risulta ora indispensabile per poter formare il governo. Altri quattro gruppi hanno infine superato la soglia di sbarramento del 3%: Dveri, Nada e Zavetnici per la destra e la coalizione ambientalista Moramo per la sinistra. Nel quadro della crisi ucraina, Dveri, Nada e Zavetnic hanno preso una posizione netta a favore di Mosca e sono così riusciti a guadagnare consensi tra l’elettorato di destra. Moramo è invece salita alla ribalta grazie alle proteste green che hanno interessato la Serbia negli ultimi mesi e che hanno visto gli accordi  tra il governo e la compagnia mineraria Rio Tinto al centro di numerose polemiche.

Manifestazioni ambientaliste a Belgrado contro la compagnia mineraria Rio Tinto. Fonte: masina.rs

Sono quindi cinque i gruppi di opposizione entrati di diritto all’interno dell’Assemblea. Un risultato non scontato e che preannuncia un ritorno del pluralismo parlamentare, grande assente dalla scena politica serba degli ultimi due anni. Alle parlamentari del 2020 gran parte dell’opposizione aveva infatti abbandonato il governo per boicottare la vittoria del Partito progressista di Vučić, accusato di aver sfruttato i media finanziati dal governo per autopromuoversi e togliere spazio agli altri partiti. Un’accusa condivisa anche da Washington e Bruxelles, con il Parlamento europeo che si era addirittura spinto a definire quella tornata elettorale come una ‘derisione della democrazia’.

Il risultato di queste ultime elezioni pone le basi per un ritorno in scena dell’opposizione ma lascia anche spazio a due considerazioni. In primo luogo, alcuni dei gruppi che sono entrati in Parlamento potrebbero scegliere di allinearsi alla maggioranza di governo. Ad optare per questa soluzione potrebbero essere ad esempio i tre partiti euroscettici Dveri, Nada e Zavetnici, che nel tempo hanno sviluppato rapporti strutturati con il Partito progressista. Si tratta di dinamiche che andranno inevitabilmente ad influire sulla composizione di governo e che, di conseguenza, condizioneranno in modo considerevole anche la futura politica estera del paese. In secondo luogo, il rinnovato pluralismo parlamentare potrebbe rafforzare la tendenza di Vučić a limitare il confronto politico. Basti pensare che in campagna elettorale il presidente è stato più volte ospite di emittenti nazionali ma sempre senza contraddittorio, eliminando così sul nascere qualsiasi possibilità di dibattito con altri esponenti politici. Una gestione arbitraria dei mezzi di comunicazione che finora ha mantenuto intatti gli equilibri di potere serbi e a cui il presidente potrebbe ora ricorrere ancor più frequentemente. La percezione di chi osserva la Serbia dall’esterno, Unione europea in primis, è infatti quella di un progressivo accentramento del potere nelle mani di Vučić. Accentramento che si riflette non soltanto nel controllo dei media ma anche nel fenomeno sempre più marcato dello State capture, in base al quale un’élite ristretta controlla i settori chiave di un paese – economia, informazione etc. – per preservare e rafforzare il proprio potere. Una dinamica che in Serbia si sta consolidando e a cui il pluralismo politico non sembra poter realmente fare da antidoto.

Proteste in Serbia contro l’emittente governativa Radio Television of Serbia (Rts).
Fonte: mappingmediafreedom.org

A guardare con attenzione allo stato di salute della democrazia serba non è soltanto Bruxelles. Si tratta di un aspetto che preoccupa anche alcuni paesi della regione balcanica, timorosi che Belgrado voglia rafforzare la propria influenza al di fuori dei confini nazionali. Effettivamente, l’esito di queste ultime elezioni ha confermato che Vučić non è soltanto l’uomo forte della Serbia ma anche uno dei leader più autorevoli dei Balcani occidentali. Questo potrebbe consolidare il suo ruolo nell’area e dare un nuovo slancio ai progetti regionali a guida serba – si pensi alla Open Balkan Initiative  –, alimentando le preoccupazioni di quei paesi che temono ingerenze da parte di Belgrado. Tra questi spicca il Kosovo, che nel commentare l’esito delle elezioni ha ribadito che “la Serbia non è né un paese democratico né neutrale” e che l’Ue dovrebbe prendere coscienza della tendenza autoritaria paese.  

Elezioni dunque nel segno della continuità, ma le cui implicazioni interne ed internazionali non sono affatto trascurabili. “Pace, stabilità, Vučić” è lo slogan su cui il presidente serbo ha basato l’intera campagna elettorale, ma la propensione all’accentramento del potere e la continua “oscillazione” tra Russia e Ue pongono dubbi circa la stabilità futura del paese. Quel che è certo è che, in quest’ultima tornata elettorale, la politica dell’equilibrismo professata da Vučić ha portato i risultati sperati.

Carlotta Maiuri

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